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Mi chiamo Andrea Franceschini, e sono un filmmaker di 37 anni. Lo scorso gennaio ho avuto la possibilità di trascorrere tre settimane in Myanmar, più precisamente nel Mon State, assieme ad un team internazionale composto da membri di OM Arts ed Heart Sound International (oggi unite nella Inspiro Arts Alliance). L’obiettivo del nostro lavoro era la produzione di 8 videoclip musicali, realizzati su canti cristiani scritti secondo la lingua e lo stile Mon. Questo ha comportato molte sfide, che abbiamo però affrontato consapevoli di poter cambiare la vita di molte persone, ed anche la nostra.

Spesso pensiamo che “evangelizzare” voglia dire soprattutto raccontare la Bibbia. Tuttavia, quello che ho imparato da viaggi umanitari come questo, e che racconterò anche attraverso la realizzazione di un documentario dal titolo “Bridging the Gap”, è che altrettanto spesso la testimonianza migliore non è fatta di parole, bensì di azioni, e di tutti i valori positivi che esse comportano per essere realizzate. Senza la pratica, parlare è recitare una parte senza averla vissuta, è allenare una squadra senza aver mai sentito l’odore di uno spogliatoio, è insegnare a suonare uno strumento senza essere mai saliti su un palco.

Il progetto a cui ho preso parte è nato dall’esigenza della chiesa locale di essere riconosciuta come parte dell’etnia Mon, per la quasi totalità buddista. Nel corso degli anni, questa difficoltà si è accentuata in seguito alla decisione della chiesa di utilizzare brani cristiani cantati in inglese e suonati con strumenti “occidentali”, lontanissimi dalla tradizione musicale Mon.
Per ovviare a questo problema, uno dei pastori della chiesa locale ha deciso di scrivere, arrangiare e registrare diversi brani cristiani in lingua Mon, attraverso il coinvolgimento di un team composto sia da cristiani che da buddisti. Molti di questi ultimi hanno aiutato la chiesa nell’esecuzione e registrazione dei brani e (durante le settimane di riprese dei videoclip) nell’allestimento scenografico che ha visto coinvolti un coreografo e cinque danzatrici Mon.

Le ragioni di questo viaggio, perciò, sono state duplici ma simbiotiche: da un lato professionali, dall’altro spirituali. Cogliere un’opportunità come questa, infatti, significa mettersi alla prova a livello lavorativo ma anche culturale, vuol dire uscire dalla propria “comfort zone” con l’obiettivo di imparare dagli altri ma anche da se stessi. E’ vero, per affrontare un viaggio umanitario servono la spinta ed il desiderio di essere al servizio degli altri. Come cristiani, possiamo dire di sentirci chiamati ad aiutare il prossimo, ma per farlo dobbiamo innanzitutto lavorare su noi stessi. La regola numero uno non è parlare di Dio. E’ prepararsi per essere al Suo servizio, altrimenti la nostra presenza in una terra che ci appare inevitabilmente come straniera diventa semplicemente un (p)assaggio insipido, per noi e soprattutto per chi non ci conosce, e magari nemmeno ci comprende.

Ricordo molto bene una frase che mi disse un monaco buddista durante un altro mio viaggio in Cina, due anni fa: noi cristiani abbiamo una responsabilità enorme nei confronti del mondo, molto maggiore di quella di un buddista, di un induista, di un animista o di un ateo. Tale responsabilità dipende proprio dalla natura “evangelistica” del nostro credo, che non può ridursi ad essere espressa a parole, ma ha bisogno di una concreta ed esemplare azione e messa in pratica dei precetti fondamentali del cristianesimo: amore, compassione, umiltà. Qualunque nostra azione non motivata da queste forze sbugiarda noi stessi e disonora ciò in cui diciamo di credere. Per me, il fondamento della mia fede è dare alle persone la libertà di riconoscersi nei valori basilari del Cristianesimo, e poterli vivere non per il loro significato letterale ma per la forza trasformatrice che generano. L’applicazione di questa seconda regola, però, dipende sempre dall’aver imparato quella precedente.

Per poter fare questo, naturalmente, non basta un’esperienza di tre settimane. Un viaggio di breve o media durata, però, può essere la migliore testimonianza possibile per le persone che incontriamo ma anche per noi stessi. In Myanmar, la mia voglia di imparare si è scontrata inevitabilmente con diverse difficoltà: la lingua locale, un’organizzazione non sempre all’altezza e comprensibilmente impreparata ad affrontare una produzione audiovisiva complessa, cambiamenti di programma, una cultura molto diversa dalla nostra e naturalmente una mentalità multisfaccettata che per essere conosciuta e capita va anche assecondata e affrontata con uno spirito pronto a coglierne il lato positivo. Per me, il significato di un viaggio come questo è saper vedere una difficoltà come occasione di crescita, un problema come fonte per la sua soluzione, un “no” come la direzione da prendere per raggiungere una nuova, imprevedibile porta aperta.

L’esperienza che ho vissuto in Myanmar è un successo “parziale”, perché molto dipenderà dal lavoro di editing che sto portando avanti per completare gli 8 video musicali ed il documentario che racconterà come sono nati e con quali risultati. I presupposti però sono molto buoni, mi regalano energia in prospettiva e anche una punta di nostalgia ripensando agli sguardi e alle parole che mi sono state regalate durante quelle tre settimane. È impossibile riassumere tutto quello che persone apparentemente così lontane da noi ci possono insegnare. Spero però che questa breve testimonianza sia un invito per altri ragazzi ed altre ragazze a mettersi alla prova, a stare con i piedi ben piantati per terra ma, perché no, su una terra lontana, difficile e “diversa”, che proprio per questo ha molto da raccontare a noi stessi, di noi stessi e per noi stessi.

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